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Sardegna in blues: Ma-moo tones di Francesco Piu

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Lo avevamo lasciato sul palco dell’Amigdala Theatre il 18 maggio di 2 anni fa ad esibirsi in un live che sarebbe poi diventato il secondo album della sua carriera (Live at Amigdala Theatre, 2010, mentre il primo è del 2007, Blues Journey).

In quella serata, Francesco Piu presentava i brani del suo repertorio, ascoltati fino ad allora in un essenziale arrangiamento voce-chitarra, impreziositi stavolta dal contributo dell’armonica di Davide Speranza e della batteria di Pablo Leoni.

Il trio, alternandosi tra accompagnamenti ed assoli, costruiva attorno a quei brani un’atmosfera ora più delicata, ora più aggressiva. 67 minuti di blues che – a tratti – si coloravano di rock, di funky, di soul. Già in quella sessione trapelava l’impronta di un bluesman che non si limita a riproporre le 12 battute classiche del Mississippi, ma ne sperimenta con contagioso entusiasmo la fusione con i generi figli del blues: il rock, il funky, il soul, quasi a voler tracciare l’evoluzione della musica, dall’era del bottleneck a quella del distorsore. E infondo è sufficiente ascoltare i virtuosismi in I don’t need no doctor, o Motherless child per cogliere il sottile passaggio da uno stile all’altro, per comprendere quanto lieve ma costante sia stato nel tempo il mutamento che ci ha condotti dal blues al rock.

Oggi, dopo 2 anni costellati di live in giro per l’Italia e l’Europa, eccolo di nuovo in studio, con un progetto che realizza appieno quella linea artistica che contraddistingue il giovane chitarrista sassarese. Sto parlando di Ma-moo tones, un album nato dalla collaborazione con i già citati Pablo Leoni e Davide Speranza, il connazionale bluesman Daniele Tenca in veste di paroliere e il bluesman d’oltreoceano, Eric Bibb, in qualità di produttore artistico.

Negli 11 brani che compongono la tracklist, la costante blues rappresentata dai timbri di resofonica, armonica, lap steel e banjo, si modella ora su ritmi sincopati come nel reggae di Hooks in my skin, si fa più incalzante nel funky di Over You, Colors e Stand-by button, sfuma in un’atmosfera tribal-orientaleggiante, lasciando spazio alle percussioni di Pablo Leoni, l’armonica di Davide Speranza e la chitarra baritono di Eric Bibb in Overdose of Sorrow.

Non meno originali gli arrangiamenti delle cover, dalla versione strumentale e intimista di Third stone from the Sun (Jimi Hendrix), alla trascinante ripresa in stile spiritual/chain gang di Soul of a man (Blind Willie Johnson), alla celeberrima Trouble so hard, in cui Francesco evoca perfino i suoni della sua terra: i campanelli dei mamuthones.

Campanelli che non sono l’unico richiamo alle origini isolane del chitarrista: il titolo stesso dell’album – Ma-moo tones –  benché scritto giocosamente in chiave anglofona, fa riferimento alle tipiche maschere del carnevale mamoiadino, vera e propria icona folcloristica della Sardegna. Nel sodalizio artistico Piu-Bibb anche le radici della cultura nuragica vanno a fondersi con le radici della black music in un viaggio blues spazio-temporale. E nonostante sia un viaggio impegnativo, l’energia e l’intensità non calano mai, neanche nella slowballad Blind Track, in cui anzi, il ritmo più lento enfatizza il pathos.

Come il disegno sonoro parte dal blues per approdare a generi confinanti, così le liriche, scritte a quattro mani da Daniele Tenca e Francesco Piu, pur sondando il sentire umano nei momenti di basso profilo che la vita talvolta ci riserva, non trascurano la presenza di sentimenti positivi o che invitano a reagire.

Eccezion fatta per la ballad Blind track, in cui si guarda al passato con amarezza, in Ma-moo tones si racconta l’attualità con avvelenata soddisfazione (The end of your spell), la ricerca del coraggio per mettere la parola “fine” quando necessario (Over you e Overdose of sorrow), la lotta contro un passato che trattiene con i suoi “artigli” (Hooks in my skin), il bisogno di premere il tasto “pause” e riflettere prima di rimettersi in gioco (Stand-by button), la fiducia nella spiritualità per risollevarsi (Down on my knees), per culminare nell’affidamento al potere vivificante dell’amore (Colors).

Un elogio alle contaminazioni stilistiche e alla poliedricità dei sentimenti, a rammentarci che nella vita non mai è tutto bianco, nero o blu(es) e che la meraviglia risiede nell’eterno e sempre nuovo combinarsi.